Una selezione della letteratura scientifica di questi mesi mette chiaramente in luce come l’introduzione dei farmaci PARP inibitori (chiamati PARPi) nella pratica clinica abbia rivoluzionato molti dei paradigmi terapeutici utilizzati per il trattamento dei i tumori sierosi ad alto grado dell’ovaio. La letteratura scientifica ci dice che è importante non solo cercare di avere nuove molecole e nuovi meccanismi d’azione, ma è altrettanto importante capire come usarle. Spesso quando si parla di farmaci a bersaglio molecolare noto, viene assunto come vero l’assioma: “se c’è il bersaglio terapeutico, allora il farmaco funziona.”
Questa è una visione semplicistica del problema e la farmacologia ci ricorda che l’effetto terapeutico di una molecola dipende da tanti fattori, legati sia alla struttura chimica della molecola che alla sua interazione con l’organismo. Una volta che abbiamo selezionato una molecola con proprietà terapeutiche, perché abbia effetto, dobbiamo studiare le dosi a cui si ha una attività antitumorale, quali sono gli effetti collaterali e a quali dosi questi effetti tossici compaiono. Dobbiamo capire in quale momento della storia naturale della malattia queste molecole possono essere usate, se da sole o in combinazioni con altri farmaci. Tutti questi passaggi sono importanti per ottimizzare le proprietà terapeutiche del farmaco.
Insieme è meglio che soli
La storia della chemioterapia in oncologia ha insegnato che se combiniamo due farmaci, con diverso meccanismo d’azione, possiamo avere una miglior risposta terapeutica, abbassare le dosi dei singoli farmaci così da diminuire gli effetti collaterali. Anche per i PARPi si stanno accumulando evidenze su possibili schemi di trattamento in combinazione con altri famaci convenzionalmente utilizzati in terapia. Una delle combinazioni che sta attirando maggiormente l’attenzione dei ricercatori è la possibilità di combinare un PARPi con gli anti-angiogenici, come ad esempio il Bevacizumab. Gli anti-angiogenici agiscono bloccando la formazione di nuovi vasi nel tumore e quindi sottraggono elementi nutritivi al tumore. In modo molto semplice: “affamano il tumore”. Una importante osservazione fatta in questi anni è che la carenza di ossigeno (ipossia) causa nelle cellule tumorali un danno nei meccanismi di riparazione del DNA, rendendole più suscettibili alla terapia con PARPi
La combinazione di anti-angiogenici e PARPi nella terapia delle recidive platino resistenti
Un recente studio clinico controllato pubblicato sulla rivista Lancet Oncology ha dimostrato che nelle pazienti con tumore all’ovaio sieroso ad alto grado che hanno recidivato con una malattia sensibile al platino (cioè almeno un anno dopo la fine della chemio) la terapia combinata di un anti-angiogenico, Bevacizumab, con un PARPi aumenta il tempo libero da malattia. Le pazienti che hanno ricevuto la combinazione hanno un intervallo di tempo di quasi 12 mesi senza evidenza di malattia rispetto ai 5 mesi nel gruppo di pazienti trattate con il PARPi dato da solo. Un dato sorprendente e molto importante perché permette poi di ritardare a queste pazienti una seconda esposizione al platino e ai suoi effetti collaterali.
Come funziona questa combinazione?
Queste evidenze cliniche hanno poi generato una serie di domande per cercare di capire quale sia il meccanismo d’azione che spiega il vantaggio di combinare queste due molecole. I dati ottenuti in diversi modelli preclinici, sia in vitro che in vivo, suggeriscono almeno due diversi meccanismi d’azione. Il primo è che l’ipossia in una cellula tumorale induce direttamente un malfunzionamento dei sistemi di riparazione del DNA. La seconda ipotesi è che i farmaci anti-angiogenici sono loro stessi in grado di danneggiare la funzione dei geni di riparazione. In entrambi i casi l’esposizione agli anti-angiogenici determina un malfunzionamento del sistema di riparazione del DNA, rendendo le cellule più suscettibili alla terapia con PARPi.
L’effetto di un farmaco non dipende solo dalla presenza del suo bersaglio
Come si vede da questi esempi, la scoperta di una molecola con possibile attività antitumorale e del suo bersaglio terapeutico è solo un pezzo di quel complicato puzzle che deve essere costruito dai ricercatori per capire quali siano le dosi di un molecola da usare per avere la massima attività antitumorale con limitati effetti collaterali, su quali tipi di tumori e in quale momento della storia clinica del pazienti questa molecola possa essere usata e con quali altri farmaci essere poi combinata.
Sergio Marchini
Dipartimento di Oncologia
Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS
Per saperne di più
Mirza MR, et al. Niraparib plus bevacizumab versus niraparib alone for platinum-sensitive recurrent ovarian cancer (NSGO-AVANOVA2/ENGOT-ov24): a randomised, phase 2, superiority trial. Lancet Oncol. 2019 doi: 10.1016/S1470-2045(19)30515-7.
Kaplan A., et al. Cediranib suppresses homology-directed DNA repair through down-regulation of BRCA1/2 and RAD51.
Sci Transl Med. 2019; 11(492): doi:10.1126/scitranslmed.aav4508