Dopo oltre 20 anni di “immobilismo” degli schemi terapeutici di prima linea per il tumore ovarico, la ricerca scientifica ha, in questi ultimi anni, fortemente rivoluzionato alcuni paradigmi chiave sulle scelte terapeutiche, aprendo nuovi orizzonti e nuovi scenari che stanno migliorando la qualità e la vita di molte pazienti. Facciamo un attimo il punto per capire che cosa sta succedendo.
Terapia personalizzata: è possibile nel tumore ovarico?
Personalizzare una terapia vuol dire prima di tutto capire la natura e le caratteristiche della malattia che vogliamo trattare. Un importante rivoluzione culturale nel campo della ginecologia oncologica è derivata dalla consapevolezza che il tumore ovarico non è più una sola malattia ma una collezione di diverse malattie che hanno una origine diversa, con caratteristiche molecolari e funzionali diverse. È fondamentale chiarire sempre la natura delle cellule che compongono il tessuto tumorale: sierose ad alto o basso grado, a cellule chiare, mucinosi o di tipo endometroide. Ad esempio solo i tumori sierosi a basso grado sono caratterizzati dalla presenza di recettori per gli estrogeni sulla loro superficie per cui possono essere trattati con una terapia a base di inibitori dell’enzima aromatasi, mentre le cellule chiare, generalmente resistenti al platino, rispondono bene alle radioterapie. Una diagnosi precisa è il primo passo per curare meglio le pazienti.
Il ruolo della chirurgia
La diagnosi precisa può essere fatta sempre e solo con un prelievo operatorio che può essere fatto sia in laparoscopia che durante un intervento chirurgico classico. La chirurgia resta sempre e comunque il primo importante e insostituibile “pilastro portante” del programma terapeutico. Indipendentemente dalle modalità con cui è fatta, è chiaro che se la chirurgia viene fatta in un centro di eccellenza, da personale chirurgico specializzato, maggiori sono le probabilità della paziente di sopravvivere. La chirurgia ha lo scopo di eliminare dalla cavità addominale ogni traccia visibile di malattia. Lo scopo della terapia farmacologica di prima linea è invece quello di “sterilizzare”, cioè di eliminare, eventuali micro metastasi che invisibili all’occhio del chirurgo sono state lasciate nella cavità addominale e che nel tempo possono dare origine ad una recidiva.
Quale terapia?
Lo schema portante della chirurgia di prima linea è rappresentato dalla combinazione di due farmaci citotossici: il carboplatino e il taxolo. La combinazione di queste due molecole è in grado di dare una remissione completa della malattia in oltre l’80% dei casi, indipendentemente dallo stadio e dall’istotipo. Il vero problema è come trattare la malattia che recidiva. In passato era abitudine comune “aspettare” il momento della recidiva per capire come trattare nuovamente la paziente. Quanto più tempo passava tanto maggiori erano le possibilità di trattare nuovamente la paziente con la stessa combinazione vincente della prima linea.
La principale rivoluzione di questi anni deriva dall’idea che nel periodo di attesa possiamo fare qualcosa. Possiamo cioè dare dei farmaci che allungano il tempo di ricomparsa della recidiva e quindi permettono nuovamente di trattare la malattia con la stessa combinazione iniziale. Questa rivoluzione è stata possibile grazie ai risultati degli studi clinici internazionali fatti in questi anni.
Il primo farmaco usato in questo senso è stato un farmaco anti angiogenico, il bevacizumab, che era dato in prima linea in combinazione con i carboplatino taxolo e poi in mantenimento.
La seconda rivoluzione è arrivata dall’utilizzo anche in prima linea di PARPi, molecole di cui si è già ampiamente parlato nelle precedenti Newsletter della Fondazione Mattioli. Il grosso vantaggio dei PARPi, va ricordato, è che sono delle pastiglie che possono essere prese comodamente dalla paziente ogni giorno a casa sua senza dover essere ospedalizzata. Nei prossimi anni sono attesi i risultati di diversi studi clinici per capire quale sia la combinazione migliore – ad esempio: bevacizumab più PARPi e mantenimento con PARPi da soli oppure PARPi con carboplatino e taxolo e poi mantenimento solo con PARPi – e quali possono essere le strategie migliori per selezionare i pazienti eleggibili per queste terapie.
Che ruolo ha l’immunoterapia?
Mentre in alti tumori solidi, come il tumore al polmone o il melanoma, l’immunoterapia sta dimostrando risultati eccellenti nella terapia di prima linea, nei tumori ovarici i risultati degli studi clinic degli ultimi tre anni sono abbastanza deludenti. I principali problemi sono legati al fatto che non sono stati ancora identificati dei marcatori molecolari che indichino quali siano le pazienti che meglio di altre possono beneficiare di questa terapia e poi il fatto che nei tumori ovarici esistono dei pathway molecolari, come quelli del TGFb che, essendo sempre attivi, hanno un ruolo inibitorio del sistema immunitario.
Questo dato seppur negativo ci dimostra, ancora una volta, che non tutti i tumori sono uguali e che la terapia migliore si ottiene conoscendo bene le caratteristiche del tumore che si vuole trattare.
Considerazioni finali
Questa breve riflessione sugli orizzonti futuri della terapia di prima linea del tumore ovarico ha lo scopo non solo di far conoscere che cosa sta succedendo ma soprattutto di far comprendere che i progressi scientifici che oggi stiamo vivendo sono il frutto di un lungo, costante e rigoroso lavoro scientifico che parte dalla ricerca di base, dalla identificazione del ruolo di alcuni enzimi come il PARP nei sistemi di regolazione della riparazione del DNA, per arrivare ai risultati degli studi clinici in cui si dimostra, nella pratica clinica, che in pazienti con definite caratteristiche biologiche (HRD o mutazioni in BRCA1/2) questi farmaci migliorano la sopravvivenza delle pazienti.
Il percorso che porta al miglioramento della terapia è come un enorme e complesso puzzle in cui dobbiamo trovare tutte le tessere, metterle sul tavolo e poi, attraverso le competenze di tutti, provare a ricostruire il quadro biologico.
Sergio Marchini
Head, Molecular Pharmacology Lab
IRCCS, Humanitas Research Hospital