In questi ultimi anni, la terapia farmacologica dei tumori ha ricevuto un nuovo slancio dallo sviluppo di una nuova classe di molecole che agiscono riattivando il sistema immunitario. Questi farmaci sono generalmente definiti come inibitori dei checkpoint immunitari (“immuno checkpoint inhibitors, noti anche con la sigla ICI) e in diversi tumori umani, quale il tumore del polmone, colon, melanoma e in diverse forme di tumori renali sono oramai entrati nella routine della pratica clinica rivoluzionando l’attuale panorama terapeutico. Dal punto di vista del meccanismo molecolare, in modo molto semplice, questi farmaci agiscono permettendo alle cellule del nostro sistema immunitario, in particolar modo ai linfociti T, di riconoscere come anomale le cellule neoplastiche e attivare i naturali meccanismi di difesa. Gli studi infatti hanno dimostrato che uno dei primi meccanismi che le cellule neoplastiche mettono in atto per poter proseguire indisturbate nel loro percorso di crescita e di trasformazione neoplastica è quello di “nascondersi” alla sorveglianza del nostro sistema immunitario. Per fare questo usano dei meccanismi molecolari che fisiologicamente controllano la durata e l’intensità della risposta immunitaria, detti comunemente “immuno-checkpoint” (noti anche con la sigla IC).

L’immunoterapia nei tumori ovarici: stato dell’arte

Ad oggi i risultati dei vari studi clinici hanno dimostrato che questi farmaci non danno risposte terapeutiche nei tumori ovarici. Noi sappiamo che il termine tumore ovarico racchiude in sé una classe molto diversa di malattie con diversa origine istologica e quindi è difficile generalizzare. Sebbene i primi dati da studi di fase 1 abbiano riportato una buona risposta in alcune pazienti con tumore ovarico a cellule chiare, in generale il quadro di risposta è largamente insoddisfacente. Infatti, nei tumori ovarici sierosi ad alto grado (noti anche con la sigla HGS) i farmaci inibitori dei checkpoint immunitari non hanno dato fino ad ora alcuna risposta, nonostante sia noto da anni che i tumori ovarici sierosi ad alto grado sono molto ricchi in cellule linfociti T e la quantità di infiltrato immunitario correla con la sopravvivenza. In breve, tumori molto ricchi in cellule T hanno una prognosi migliore rispetto a quelle pazienti con uno scarso infiltrato immunitario. L’idea generale è che nonostante le cellule del sistema immunitario riconoscano le cellule tumorali, una volta raggiunto (in termine tecnico: infiltrato) il tumore queste siano ”bloccate” da un meccanismo molecolare non ancora noto e quindi incapaci di poter esercitare la loro azione di difesa.

Una nuova ipotesi molecolare

Nel mese aprile su una importante rivista scientifica americana (1), un team di ricercatori americani dell’Università di San Diego in California ha dimostrato, utilizzando sia modelli clinici che preclinici, che uno dei principali meccanismi alla base del mancato funzionamento degli inibitori dei checkpoint immunitari nei tumori ovarici sierosi ad alto grado sarebbe l’alterata attivazione a livello delle cellule tumorali di una proteina, una chinasi per la precisione, comunemente coinvolta nei meccanismi di adesione cellulare (definita con l’acronimo di proteina FAK). I ricercatori hanno dimostrato nel loro lavoro che la proteina FAK modula anche l’espressione di un ligando di superficie (noto con la sigla CD155), che controlla il funzionamento degli immuno-checkpoint, che come abbiamo detto prima sono dei sistemi che agiscono da “freno” sulla attivazione del sistema immunitario. Oltre a identificare il meccanismo, i ricercatori hanno anche sviluppato una ipotesi terapeutica, in quanto utilizzando un modello di tumore ovarico di topo, i ricercatori hanno combinato un inibitore orale selettivo di FAK con degli inibitori dei checkpoint immunitari e hanno riscontrato una marcata riduzione della massa tumorale nei topi trattati con la combinazione rispetto a quelli trattati con il singolo inibitore dei checkpoint immunitari. Successive analisi hanno confermato che la prolungata sopravvivenza dei topi trattati con la combinazione era dovuta alla riattivazione della funzione delle cellule immunitarie e alla formazione di strutture linfoidi terziarie, segni distintivi di una risposta immunitaria antitumorale. Poiché FAK è comunemente sovra espresso nei tumori ovarici sierosi ad alto grado, questo potrebbe ben presto diventare un marcatore biologico per stratificare quelle pazienti che potrebbero beneficiare della terapia con la combinazione degli inibitori dei checkpoint immunitari e inibitori di FAK.

Nessuna certezza ancora possibile

Per quanto questo sia un articolo principalmente preclinico e l’efficacia e la tossicità della combinazione di inibitori di FAK con inibitori dei checkpoint immunitari debba ancora essere dimostrata in studi clinici, i dati presentati ci portano ad almeno due principali osservazioni.

La prima è relativa alla plasticità delle cellule tumorali.Più il tumore cresce e prolifera e maggiori sono i meccanismi molecolari che usa per poter sopravvivere e continuare a proliferare. Se vogliamo avere maggior successo dal punto di vista terapeutico, dovremmo nei prossimi anni cercare sempre di più di riconoscere e “colpire” il tumore quando questo è nelle sue fasi iniziali di crescita. La diagnosi precoce diventa oggi strategica da questo punto di vista.

La seconda osservazione riguarda ancora una volta il rigore del metodo scientifico. La ricerca deve basarsi sulla integrazione di tutte le informazioni disponibili che si possono ottenere da diverse fonti, utilizzando tutti i modelli e gli strumenti a nostra disposizione. Questa è, e sarà, l’unica strada disponibile per avere a disposizione nuove opportunità terapeutiche.

Sergio Marchini

Head, Molecular Pharmacology Lab

IRCCS, Humanitas Research Hospital, Milano

Per saperne di più

Ozmadenci D et al. Tumor FAK orchestrates immunosuppression in ovarian cancer via the CD155/TIGIT axis. Proc Natl Acad Sci USA 2022, 26; 119: e2117065119. doi: 10.1073/pnas.2117065119.

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