In questi ultimi anni, la ricerca scientifica ha spostato sempre più la sua attenzione sul ruolo che il tessuto “normale” che circonda e infiltra la massa tumorale (chiamato “microambiente tumorale” o TME, dall’inglese Tumoral Micro-Enviromnent) esercita sui processi di crescita e trasformazione neoplastica. I dati dicono che non possiamo più definirlo come un semplice tessuto “normale”, ma anzi che la sua organizzazione e struttura giocano un ruolo fondamentale nei processi di crescita e di trasformazione della cellula tumorale.

Cosa è il TME?

Come detto sopra, con questo termine si intendono tutte quelle cellule appartenenti al sistema immunitario e le componenti della matrice extracellulare o stromale che infiltrano e crescono assieme alle cellule tumorali stesse, dando vita alla massa tumorale. Il tumore quindi non è fatto solo da cellule maligne, con un genoma mutato, ma anche da cellule apparentemente “normali” cioè che hanno un genoma integro e non presentano quelle caratteristiche molecolari tipiche di una cellula trasformata. Questo non vuole assolutamente dire che le cellule del TME non abbiano un ruolo diretto nel controllo della crescita del tumore o che risultino inerti e non coinvolte nel processo di crescita e progressione del tumore. Anzi è tutto il contrario!

Che ruolo ha il TME?

Negli anni passati l’attenzione dei ricercatori si è maggiormente focalizzata sulla identificazione e caratterizzazione dei fattori molecolari che alterano il genoma delle cellule tumorali, per capire i meccanismi alla base del processo di trasformazione e di crescita tumorale. Una grande quantità di dati molecolari sulle cellule tumorali è stata generata e in molti casi questi dati hanno aiutato a distinguere meglio le varie malattie, e a capire meglio quali pazienti trattare e quali non trattare con determinati farmaci. Ma siamo ancora molto lontani dall’ottenere una cura per molti pazienti. L’esperienza clinica dimostra che pazienti con la stessa diagnosi e gli stessi profili molecolari hanno talvolta un decorso clinico completamente diverso tra loro. È verosimile ritenere che l’analisi dei profili mutazionali sia solo una parte della storia, un pezzo del puzzle, importante ma pur sempre solo un pezzo. Per rispondere a questa domanda è necessario iniziare a guardare oltre il nucleo, oltre la cellula tumorale stessa e capire l’effetto che le alterazioni del genoma tumorale esercitano sulla composizione del TME e, di riflesso, come questo controlla la crescita anomala delle cellule tumorali.

È oggi opinione comune che questa interazione tra cellula tumorale e TME sia alla base dei meccanismi molecolari che permettono alla cellula tumorale di nascondersi al sistema di sorveglianza immunitario così da crescere, progredire e continuare nel suo processo di trasformazione tumorale. A riprova, l’efficacia clinica di una nuova classe di farmaci, gli inibitori del checkpoint immunitario, è legata proprio alla loro capacità di sbloccare e riattivare dei “freni” del sistema immunitario che le cellule tumorali hanno manipolato per poter progredire e crescere fuori dal controllo immunitario.

Perché studiare solo ora il TME?

Studiare l’interazione con il TME richiede delle tecniche particolari che solo negli ultimi anni si sono rese disponibili. La tecnica del sequenziamento genetico per singola cellula, dall’inglese “single cell sequencing”, e quella della trascrittomica spaziale, dall’inglese “spatial transcriptomic”, hanno permesso di caratterizzare prima e di posizionare poi nello spazio le diverse popolazioni cellulari che caratterizzano la massa tumorale, indagando così direttamente l’eterogeneità cellulare che caratterizza il tumore.

Quali novità per il tumore ovarico?

Partendo da queste osservazioni, un lavoro appena uscito sulla prestigiosa rivista Nature ha utilizzato diverse tecniche “- omiche” per studiare la composizione del TME in 42 casi di tumore sieroso ad alto grado di cui erano disponibili in totale 160 biopsie, ossia in media tre biopsie indipendenti per ciascun paziente provenienti da diverse sedi anatomiche. Obiettivo dello studio è quello di capire non solo l’effetto che il TME ha sulla crescita di ogni singola metastasi, ma anche di capire l’effetto che la singola sede anatomica ha sulla biologia del tumore in termini di crescita, lo sviluppo del tumore e la risposta alla terapia.

I risultati dello studio dimostrano, attraverso un approccio integrato di biologia molecolare e di microscopia, che a seconda delle diverse sedi anatomiche di localizzazione le cellule tumorali sono sottoposte a delle pressioni selettive da parte del TME molto diverse tra loro. Questo risultato, se confermato sul piano clinico, complica ancora di più la situazione e rende ragione del fallimento della chemioterapia convenzionale e anche della immunoterapia.  L’anatomia ha un forte impatto sulla risposta del TME alla presenza di cellule tumorali, per cui i meccanismi di evasione dal controllo immunitario sono diversi se, per uno stesso paziente, confrontiamo una metastasi in sede omentale con quelli di una metastasi in sede peritoneale o in sede ovarica. In breve, non solo esiste una marcata eterogeneità a livello delle cellule tumorali tra il tumore primario e le sue metastasi, ma anche il TME è diverso e fortemente influenzato dalla sede anatomica in cui la metastasi cresce. Queste osservazioni suggeriscono che quanto più la malattia è diffusa, tanto maggiore è la sua eterogeneità e tanto più difficile risulta pianificare un approccio terapeutico efficace e risolutivo.

Cosa fare?

Uno scenario così complicato porta ad una riflessione su quali possano essere in futuro le strategie per cercare di trattare malattie che, come il tumore sieroso ad alto grado, sono spesso diagnosticate in fase avanzata e con molteplici metastasi diffuse in diversi organi, dove è verosimile che cloni di cellule potenzialmente resistenti a qualsiasi tipo di terapia siano già presenti in una o più sedi metastatiche.

Per superare questi ostacoli dobbiamo anticipare la diagnosi di malattia. Diagnosticare un tumore nelle sue fasi iniziali, quando è meno eterogeno sul piano molecolare e non ha ancora sviluppato metastasi in altri organi, è l’unica strada ad oggi percorribile perché gli strumenti terapeutici a nostra disposizione risultino efficaci. Ad esempio, i tumori ovarici allo stadio I, che verosimilmente rappresentano una fase inziale della malattia (malattia confinata in sede ovarica), hanno una prognosi estremamente favorevole in cui la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi raggiunge quasi l’80% in pazienti che sono trattate con gli stessi protocolli terapeutici usati per trattare gli stadi III/IV, che invece hanno molteplici metastasi e per cui la sopravvivenza è intorno al 30%.

L’obiettivo, non facile, della ricerca scientifica deve essere quello di usare tutti i sistemi e le informazioni a nostra disposizione per anticipare il più possibile la diagnosi della malattia, in modo da “colpirla” quando questa non ha ancora raggiunto quel grado di complessità e di eterogeneità che rendono vano ogni approccio terapeutico.

 

 

Sergio Marchini

Head, Molecular Pharmacology Lab

IRCCS, Humanitas Research Hospital, Milano

 

 

Per saperne di più:

Vázquez-García I, et al. Ovarian cancer mutational processes drive site-specific immune evasion. Nature. 2022 Dec 14. doi: 10.1038/s41586-022-05496-1.

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