Il comitato per i medicinali per uso umano (Committee for Medicinal Products for Human Use, CHMP) dell’Agenzia Europea per il Farmaco (EMA) nella sua ultima riunione del 17 Settembre, ha dato raccomandazione positiva alla estensione della commercializzazione del farmaco Olaparib, il cui nome commerciale è Lynparza, nei tumori dell’ovaio come terapia di mantenimento in aggiunta al Bevacizumab (un farmaco anti-angiogenico) in quelle pazienti che hanno difetti nei sistemi di riparazione del DNA per mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2 o mostrano instabilità genomica. La decisione sarà trasmessa alla Commissione Europea, che fornirà l’autorizzazione all’immissione in commercio di questo nuovo protocollo e la sua decisione sarà vincolante per tutti gli stati membri dell’Unione.

Che cosa comporta questa decisione?
La prima importante osservazione da fare è che questa decisione arricchisce l’armamentario terapeutico per le pazienti con diagnosi di tumore epiteliale maligno dell’ovaio. Oggi ci sono a disposizione più strumenti e un nuovo schema terapeutico per migliorare fin dalla prima linea la terapia e quindi la sopravvivenza.

Quali sono le basi scientifiche di questa decisione?
I risultati dello studio clinico PAOLA-1, pubblicato circa un anno fa sulla prestigiosa rivista americana New England Journal of Medicine (2019, 381; 125 pg: 2416-2428), già commentati in una precedente articolo della Newsletter Fondazione Mattioli, hanno dimostrato che le pazienti che hanno un assetto genetico particolare, cioè instabilità genomica dovuta a mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2 o alterazioni del sistema della ricombinazione omologa (HR), hanno un tempo libero da malattia molto più lungo se dopo la prima linea con il platino ricevono una terapia quotidiana (detta di mantenimento) con un farmaco della famiglia dei PARP inibitori (PARPi) come l’Olaparib, insieme ad un anti-angiogenico quale il Bevacizumab. Riprendendo brevemente i dati dello studio PAOLA-1, si nota che le pazienti con mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2 e più in generale con difetti nei sistemi di riparazione del DNA se trattate con terapia di mantenimento a base di Olaparib e Bevacizumab hanno un tempo libero da malattia di 31.2 mesi mentre il gruppo di pazienti che ricevono solo il Bevacizumab hanno una durata del tempo libero da malattia di 17.7 mesi. In meno di un anno dalla pubblicazione del lavoro scientifico, visti i risultati di questo studio, l’EMA ha dato parare favorevole al suo utilizzo come pratica clinica in tutta Europa.
Che cosa cambia?
Il parere è vincolante e questo vuol dire che tutti i paesi della comunità europea devono modificare il loro prontuario terapeutico affinché sia resa disponibile questa terapia alle pazienti con tumore ovarico che hanno alcune caratteristiche molecolari ben precise.

La medicina di precisione entra nella terapia dei tumori ovarici.
Questa decisione porta ad un ulteriore cambiamento nella pianificazione della terapia delle pazienti con tumore ovarico. Negli anni scorsi si è visto quanto l’analisi dello stato mutazionale dei geni BRCA1 e BRCA2 fosse importante per capire se trattare o meno queste donne con i PARPi. Da oggi c’è un livello di complessità in più in quanto ci si è resi conto che esiste una quota importante di pazienti che non hanno mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2 ma che rispondono bene alla terapia con PARPi. Studi più approfonditi hanno dimostrato che queste pazienti hanno difetti in altri geni che rendono inattivo il sistema di riparazione del DNA e per questo risultano sensibili alla azione del farmaco. Il problema vero è che ad oggi non è ancora ben chiaro quali siano i metodi per intercettare in modo chiaro queste pazienti e dare loro la terapia migliore. I dati ottenuti con lo studio clinico PAOLA-1 che hanno portato alla approvazione da parte di EMA, sono derivati da un saggio molecolare fatto da una ditta privata, che misura l’estensione della cicatrice genomica nel DNA del tumore di queste pazienti.

Che cosa è la cicatrice genomica?
Durante il suo lungo percorso di crescita e di sviluppo, il DNA di una cellula tumorale che ha dei difetti nei sistemi di riparazione del DNA stesso non è in grado di riparare correttamente eventuali danni alla sua struttura molecolare, e quindi per cercare di sopravvivere, cerca di aggiustare in modo approssimativo queste regioni danneggiate in modo che la cellula tumorale possa continuare a crescere. In analogia con quanto succede sulla nostra pelle quando si formano le cicatrici dopo un taglio o una ferita. In breve, la cellula tumorale, per sopravvivere e continuare a crescere cerca di convivere con queste regioni di DNA alterato, come se fossero delle vere e proprie “cicatrici genomiche”. I dati pubblicati nello studio PAOLA -1 dicono che è possibile identificare le pazienti che hanno dei difetti nei sistemi di riparazione al DNA contando il numero di cicatrici genomiche presenti nel DNA della cellula tumorale. Attraverso il protocollo di analisi organizzato da questa ditta americana è stata fissata la soglia di 42, al di sopra della quale si identificano le cellule sensibili alla terapia con PARPi, perchè hanno tanti difetti nei sistemi di riparazione del DNA (in gergo tecnico HRD, homologous recombination deficiency), mentre sotto il valore soglia di 42 sono identificate quelle cellule che hanno poche cicatrici genomiche (in gergo tecnico HRP, homologous recombination procifiency) e quindi non rispondono alla terapia con PARPI.

Chi è in grado di fare la cicatrice genomica?
Questa è oggi la grande sfida a cui siamo chiamati. I dati generati nello studio PAOLA-1 sono stati fatti da una ditta privata americana, la quale ha brevettato il suo metodo e non lo condivide con la comunità scientifica nemmeno quando è chiamata a partecipare agli studi clinici. Questa è una posizione di monopolio che non può essere accettata quando si parla di salute pubblica. Per questo motivo, l’Europa accademica si sta organizzando in modo che possa essere sviluppato un test “non profit”, accessibile a tutti i centri ospedalieri, con costi contenuti e in cui la filiera di produzione dei dati possa essere controllata e valutata da tutta la comunità scientifica. Da questo punto di vista l’Europa sta rispondendo in modo unito per cercare una soluzione che sia di interesse per tutta la comunità e soprattutto a vantaggio dei pazienti. Anche se in ritardo la risposta europea c’è e a breve usciranno anche i dati anche dei test accademici.

Sergio Marchini
Dipartimento di Oncologia
Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS

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