Il tumore in gravidanza è un’evenienza rara, che si verifica in una gravidanza su 1000-2000, nonostante sia in aumento con l’aumentare dell’età media delle pazienti. I casi si verificano più frequentemente per il tumore della mammella, mentre i tumori ginecologici hanno un’incidenza che varia da 1,4-4,6 su 100.000 per i tumori della cervice, a 0,1-0,5 su 100.000 per i tumori della vagina e della vulva.

Proprio la scarsa prevalenza, unitamente alla necessità di avere informazioni su questa condizione, ha spinto nel 2005 alla fondazione del progetto INCIP (International Network on Cancer, Infertility and Pregnancy), con l’intento di concentrare i dati in unico database. Si tratta infatti di una grande banca dati internazionale, per la quale collaborano ormai più di 62 centri in 25 Paesi, e che conta più di 2.000 casi di tumore in gravidanza. Per questo progetto sono stati prodotti diversi consensus meetings, che hanno sviluppato protocolli, varie pubblicazioni e infine delle linee guida dedicate a questa condizione. Anche se rimangono molte le domande ancora senza risposta, grazie alle energie spese per la realizzazione di questo progetto, le conoscenze sono aumentate tantissimo.

Le principali difficoltà nel trattare una donna in gravidanza mentre è affetta da tumore nascono dalla necessità di integrare le strategie diagnostiche e terapeutiche oncologiche con le restrizioni dovute alla gravidanza. La domanda che si pongono non solo le donne in questa condizione, ma anche i clinici che si trovano a fronteggiare queste situazioni complesse, è: questo provvedimento avrà delle ripercussioni sul bambino che nascerà? Da qui nasce la necessità di avere delle linee guida chiare sul trattamento della donna, per assicurarle la migliore sopravvivenza possibile pur cercando di non danneggiare il feto.

 

Quali indagini diagnostiche si possono eseguire su una donna in gravidanza?

In base a studi precedenti è stato stabilito che la dose limite oltre la quale vi è un rischio significativo di danno al feto è 100 mGy. I raggi X sono consentiti in gravidanza poiché sono fonte di radiazioni in dosi trascurabili, inferiori a 0.1 mGy. Le tecniche diagnostiche che comportano radiazioni ionizzanti (come la TAC) dovrebbero essere, se possibile, sostituite con procedure senza radiazioni ionizzanti come l’ecografia o la risonanza magnetica. Tuttavia, siccome queste tecniche di imaging sono il punto cardine per la stadiazione di molti tumori ginecologici, esse possono essere eseguite utilizzando alcuni accorgimenti (come schermature appropriate) anche con mezzo di contrasto intravenoso e senza che il feto riporti danni. Allo stesso modo, la PET può essere eseguita dopo idratazione con l’utilizzo di catetere vescicale che ne assicuri lo svuotamento, per evitare che si accumuli liquido di contrasto fluoresceinato. Per quanto riguarda la risonanza magnetica, essa si può eseguire ma senza l’utilizzo del mezzo di contrasto, in quanto il gadolinio è stato associato a sintomi reumatologici, infiammatori, dermatologici e morte neonatale. Al suo posto può essere usato il succo di ananas.

 

È possibile operare una donna in gravidanza?

La crescita dell’utero e del feto durante la gravidanza comporta una serie di sfide per il chirurgo, non solo dal punto di vista dell’ingombro meccanico, ma anche per la diversa emodinamica. L’intervento chirurgico si può eseguire in tutti i trimestri della gravidanza, tuttavia il periodo migliore è fra l’inizio del secondo trimestre (che quindi evita il rischio di aborto del primo trimestre) e la ventiduesima settimana di gestazione circa, quando le dimensioni dell’utero consentono ancora abbastanza accesso alla cavità addominale. Anche l’anestesia è fattibile, preferibilmente in forma loco-regionale. Inoltre, la posizione in decubito laterale sinistro è quella che assicura la minor compromissione del ritorno venoso alla donna. L’approccio può essere laparotomico o laparoscopico, anche se studi recenti hanno dimostrato come la laparotomia sia associata a maggiori complicanze intra e post-operatorie, e come le contrazioni uterine insorgano più frequentemente in queste pazienti. Per ridurre il rischio di ipercapnia (cioè, una condizione caratterizzata dall’accumulo eccessivo di anidride carbonica nel sangue) e di ipoperfusione da aumentata pressione endoaddominale, si raccomanda che l’intervento laparoscopico non superi i 90-120 minuti e che venga mantenuta una pressione endoaddominale bassa, di 10-13 mmHg. Ovviamente, le condizioni non solo materne ma anche fetali vengono monitorate nel corso di tutto l’intervento in maniera continuativa.

È possibile che la chirurgia venga eseguita in maniera solo parziale in gravidanza con radicalizzazione successiva: è quello che accade, ad esempio, per le cisti ovariche sospette, che vengono asportate in gravidanza, mentre l’intervento completo con asportazione di utero, ovaie e sedi eventuali di carcinosi, viene spesso fatto dopo la gravidanza o durante il cesareo. È possibile anche intervenire direttamente sul collo dell’utero con una conizzazione, con risultati buoni dal punto di vista dell’incontinenza cervicale e del parto pretermine.

 

È possibile fare chemioterapia e radioterapia in gravidanza?

Sì, a patto che non venga eseguita nel primo trimestre e che non vengano utilizzati alcuni farmaci. Il primo trimestre è un momento decisivo per l’organogenesi, per cui l’assunzione di chemioterapia è stata associata in diversi studi su animali ad aborto o a malformazioni fetali. Dopo le 14 settimane è invece possibile somministrare vari farmaci come derivati del platino, Taxani, Antracicline, Etoposide e Bleomicina. Restano controindicati tutti i farmaci molecolari, per i quali la placenta non costituisce un filtro efficace. Studi recenti hanno dimostrato che i bambini nati da madri che avevano assunto chemioterapia non avessero un rischio aumentato di malformazioni e non avessero deficit cognitivi o cardiaci dopo un periodo di osservazione di alcuni anni. Rimane comunque la regola cardine di qualsiasi gravidanza: ogni agente deve essere somministrato, se possibile, in monosomministrazione e alla minor dose compatibile con la cura della patologia. Inoltre, la chemioterapia è controindicata oltre le 35 settimane, ed è necessario un intervallo di almeno tre settimane fra l’ultimo ciclo e il parto.

La radioterapia non trova invece spazio nel trattamento dei tumori ginecologici in gravidanza, essendo la zona da irradiare (la pelvi) a stretto contatto con l’utero e con il feto.

 

Quali altre informazioni si possono dare ad una donna in gravidanza e affetta da tumore?

Il tumore in gravidanza è una condizione estremamente stressante per una donna, che può comportare scelte molto difficili, come l’interruzione di gravidanza se la diagnosi viene fatta molto precocemente o anticipare il parto per poter iniziare prima le cure, ma non deve portare al dilemma di decidere se curarsi o far sopravvivere il feto.

Non vi sono di fatto indicazioni sulla anticipazione del parto prima della trentasettesima settimana se non per problemi di natura ostetrica o oncologica specifici, sulla possibilità di poter partorire naturalmente rispetto ad un parto cesareo, o sulla condizione di poter allattare in assenza di chemioterapia concomitante.

Generalmente queste sono gravidanze seguite in centri di riferimento e da un’equipe multidisciplinare di esperti, fra cui anche uno psicologo che può offrire grande sostegno e aiuto in queste circostanze.

 

Giulia Parpinel e Maria Elena Laudani

Università degli Studi di Torino

Scuola di Specializzazione in Ginecologia e Ostetricia

Dipartimento di Scienze Chirurgiche

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